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Narrazioni decoloniali

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È uscito nelle librerie italiane il piccolo e prezioso libro Idee per Rimandare la Fine del Mondo di Ailton Krenak. Importante leader della lotta indigena brasiliana, Krenak, è stato tra gli organizzatori dell’Aliança dos Povos da Floresta e della União dãs Nações Indigenas. Frutto delle mobilitazioni sociali che hanno occupato le strade del Brasile durante il regime militare, la mobilitazione indigena è stata fondamentale per la richiesta della demarcazione dei territori e il riconoscimento delle popolazioni originarie.

E’ ricordato da molti per il suo discorso all’Assemblea Costituente a Brasilia nel 1987 durante il quale, dalla tribuna, vestito con un abito bianco, mentre proclamava il suo discorso, si è dipinto il viso con inchiostro nero per protestare contro ciò che considerava un retrocesso nella lotta per i diritti degli indigeni.  

Il libro uscito in Brasile nella seconda metà dello scorso anno sembra anticipare quello che il mondo intero si sarebbe trovato a vivere solo pochi mesi dopo

In realtà non è novità per pensatori indigeni allertare sulla fine del mondo. Lo stesso aveva fatto alcuni anni prima (2016) Davi Kopenawa nel suo libro ‘A queda do Céu, palavra de um xamã yanomami’ (La caduta del Cielo, parole di un xamã yanomami pubblicato in Italia da Nottetempo) frutto di una lunga conversa con l’antropologo francese Bruce Albert.

Secondo la cosmologia amerindia infatti il mondo è ciclico e la sua fine non è nulla altro che il normale corso a cui ne segue uno nuovo. Certo è che la forma che gli esseri così detti civilizzati stanno trattando la Terra non fa altro che accelerare questi processi.

Visto da questo punto di vista l’emergenza sanitaria in cui stiamo vivendo appare come una opportunità per dare vita ad un nuovo corso, e trasformare il vuoto slogan ‘non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema” in qualcosa di concreto. Peccato che la realtà a cui stiamo assistendo sia ben distante da quello che gli indios ritengono un ciclo normale di esaurimento e rinascita capace di riconoscere l’esistenza di cronologie plurali del mondo che abitiamo.

Il libro tradotto da Sara Cavarero è composto dal testo di una conferenza e tre interviste rilasciare in Portogallo tra il 2017 e 2019. La conferenza, da cui deriva il titolo, è stata la prima che Krenak ha accettato di tenere in Portogallo. In essa interroga il concetto di umanità a partire dalla cosmologia indigena in contrasto con quello definito dalla cultura civilizzata dei bianchi europei.

Nella visione amerindia la parola ‘umano’ non indica l’umanità come una specie naturale, ma la condizione sociale di ogni essere. Secondo il multi-naturalismo amerindio ogni specie si vede come umana, vedendo tutte le altre come non umane, cioè come specie di animali o spiriti, alimentando una cosmologia ricchissima che riconosce la coesistenza nel mondo di molte specie di esseri (inclusi i non umani) coabitando una molteplicità di rappresentazioni dello stesso mondo.

Il testo interroga il lettore occidentale. Nella apparente onda decoloniale che caratterizza i tanti dibattiti epistemologici che, quasi quotidianamente, ci stiamo abituando a leggere anche in Italia ci disarma con domande semplici: “Perché queste narrative non entusiasmano? Perché vengono dimenticate, cancellate a favore di una narrativa globalizzante?”

Il testo, così come le parole di Krenak per chi abbia avuto la fortuna di ascoltarlo, è una partitura capace di condurti da miti ancestrali ad esperienze drammaticamente concrete, come l’invasione tollerata, per non dire incentivata, dall’attuale governo Bolsonaro delle terre indigene yanomami da parte dei minatori suggerendoci risposte che ci dovrebbero fare pensare

“La nostra epoca è specializzata nel creare assenze: del senso di vivere in società, dello stesso senso dell’esperienza della vita. Ciò suscita un’enorme intolleranza verso chi è ancora in grado di sperimentare il piacere dell’essere vivo, di danzare, di cantare. Ed è pieno di piccole costellazioni sparse nel mondo e fatte di persone che ancora danzano, cantano e fanno piovere. Il tipo di umanità zombie cui siamo chiamati ad aderire non tollera tanto piacere, tanto godimento della vita”.

L’attualità del testo tocca temi come la mobilità che sembra il sintomo più evidente della realtà distopica in cui ci eravamo abituati a vivere sottolineando come, allo stesso modo che i nostri movimenti sul pianeta siano (o erano) sempre più semplici, il senso di questi spostamenti stia venendo sempre meno e ci riporta a riflessioni che sono comuni ad altri pensatori, si pensi al filone di studi legati all’Antropoceno.

Solleva osservazioni sul concetto di sostenibilità, secondo l’autore definito in altre interviste come un mito costruito dalle corporazioni per giustificare il loro assalto alla idea (indigena) della natura, come un essere vivo, sociale e politico.

Non manca una riflessione sul sogno considerato non appena come esperienza onirica ma soprattutto un cammino di autoconoscenza, fondamentale per la piena comprensione della cosmologia amerindia e per la realizzazione di questa visione di contatto tra differenti mondi.

Con l’intelligenza acuta e attenta che lo contraddistingue nell’ultimo testo rimanda ad una riflessione che, letta ora, appare tra una consolazione ed un avvertimento: ‘non cadremo da nessuna parte, quello che all’improvviso ha fatto nostra madre Terra è stato semplicemente voltarsi a prendere il sole, ma siccome ci eravamo così abituati, vogliamo soltanto continuare a essere allattati”. Impossibile non rimandare tale pensiero a quello che spesso Krenak ha affermato in varie interviste, la sua preoccupazione non va tanto agli indios, che come lui dice sono 500 anni che cercano di sopravvivere, ma agli uomini e donne bianche che sembrano non voler mai smettere di essere svezzati. 

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